Vajont, ricordi di bambina di un “paesaggio non-paesaggio”

L’anniversario del Vajont è il 9 ottobre 1963. Insieme alla strage di Bologna sono i due eventi che sono impressi nella mia memoria, al di là dei fatti più intimi e familiari che scelgo di non raccontare, qui.

Nel 1964 avevo 7 anni, dopo un lungo periodo di continue tonsilliti i miei genitori presero la decisione di farmi operare. A quei tempi la tonsillectomia era un’operazione invasiva e traumatica. Mio padre, che lavorava in ambiente medico, non voleva sottopormi al tipico intervento di quegli anni: legata a una poltrona “medica”, barra in bocca per tenerla aperta al massimo, tonsille tolte a strappo. Gli sembrava una tortura inaccettabile. Per questo i miei aspettarono e aspettarono ancora. Alla fine, ero fisicamente distrutta. Inaspettatamente rientrò a Ravenna dopo un periodo trascorso in America per specializzarsi, un medico che aveva acquisito una nuova tecnica operatoria in anestesia totale.

Mio padre si convinse che il dottor Facchini era la persona giusta e quindi, finalmente, fui operata. Le mie condizioni, dopo l’intervento non erano buone. Uno scricciolo che praticamente non riusciva nemmeno a mangiare. Il medico disse che era opportuna una vacanza in montagna. Non negli Appennini, vicino a casa. Ma nella montagna “vera”, le Dolomiti. A Lozzo di Cadore, la mia famiglia aveva amici che affittavano parti della loro villa a quelli che venivano chiamati “i villeggianti”. Si decise di andare dal 1 al 20 luglio 1964: la mia prima vacanza in montagna.

Partimmo da Ravenna, con la nostra Fiat 500 D, carica fino all’inverosimile.

Longarone

Lei, la 500, arrancava lungo le strade: prima la Romea, poi la tangenziale di Mestre e poi su, su fino a che arrivammo a Longarone.

Io avevo sentito parlare di quello che era successo solo 8 mesi prima, ma non è che avevo capito proprio bene. Era comprensibile, dato che al momento del disastro, in ottobre 1963, avevo 6 anni e 10 mesi.

I miei genitori, invece erano consapevoli di quello che era successo: ci fermammo e scesero. Poi anch’io. Erano commossi, lo ricordo bene. Anche il babbo aveva le lacrime agli occhi e non ero certo abituata a vederlo così.

Di Longarone mi ricordo un “paesaggio non-paesaggio”. Era tutto bianco e grigio. Tutta ghiaia. Non c’era niente, nessuna casa. Se ne vedeva qualcuna un po’ più lontana, a mezza costa. Erano le case risparmiate dall’onda proveniente dal Monte Toc. Una, mi ricordo, era tagliata a metà con una precisione sconcertante. Mi sembrava tutto così strano. Camminavo lungo la strada di ghiaia e quello che mi colpì furono dei piccoli cartelli, piantati per terra con sopra scritto: farmacia, barbiere o il nome della famiglia che abitava lì.

Gianfranco Moroldo

C’era silenzio. Che strano questo ricordo del silenzio, in fondo la ricostruzione era già iniziata e la strada era trafficata … avrebbe dovuto esserci rumore. E invece… mi ricordo il silenzio. Poi, altro ricordo, la campana della chiesa, appoggiata per terra. Non avevo mai visto una cosa del genere.

La diga: un incontro

Là in fondo, minacciosa e silenziosa, la diga. La sua presenza era incombente. Guardarla è stato un vero e proprio incontro. Con qualcosa che mi sembrava quasi alieno, di un altro mondo. L’incontro con la distruzione ma anche con la forza straordinaria della natura. Quindi così straordinariamente terrena, altro che aliena.

Negli anni successivi (siamo andati a Lozzo di Cadore per ben 36 anni fino al 2.000), siamo ripassati per Longarone 72 volte ma ho sempre evitato di volgere lo sguardo verso di lei. Mi era bastata la prima volta.

Ricordo che siamo rimasti pochi minuti che mi sono sembrati eterni. Non vedevo l’ora di andare via. Mi sono guardata intorno e quello che c’era si è impresso nella mia memoria e nella memoria dei miei genitori. Siamo ripartiti subito dopo, in silenzio. Al ritorno, a fine mese, non ci siamo fermati.