“Con brand equity s’intende comunemente il valore aggiunto che una marca conferisce a un prodotto o un servizio (Kotler, Keller 2007)”. Esprime la “forza” e la riconoscibilità di un determinato brand. La brand equity è, quindi, un bene intangibile che dipende dalla notorietà, dalla qualità percepita e dalla fedeltà alla marca.
Un esempio: una maglietta è solo una maglietta? Non sempre. Se, ad esempio, è di un rosso caratteristico e ha sopra un cavallino rampante vale molto di più di una qualsiasi altra maglietta rossa. Questo, in particolare, se sei un appassionato di automobilismo!
“Secondo esempio. Un utente va in biblioteca e fra i libri esposti nello scaffale delle novità ne vede uno di un autore fra i suoi preferiti. Non ne ha sentito parlare, non ha letto recensioni, non è nemmeno al corrente che ha appena vinto un premio letterario famoso. Lo sceglie comunque perché è di quell’autore e la fiducia nei suoi confronti si è consolidata nel tempo man mano che ha letto le sue opere. In questo caso, il brand è l’autore e la sua brand equity è il valore che l’utente assegna al suo lavoro e che lo porta a scegliere proprio quella fra tutte le proposte esposte.” da Come fare branding in biblioteca
Il concetto di brand equity è molto articolato e sono diversi i modelli che studiano questo aspetto del branding.
Il CBBE
Fra i più interessanti è quello proposto da Keller (a partire dal 1993) [*]. Il CBBE (Consumer Based Brand Equity) crea le condizioni per facilitare la generazione del valore del brand e per gestirlo nel tempo attraverso due componenti: la consapevolezza del brand (awareness – un esempio per approfondire) e l’immagine del brand (brand image: qui un esempio in biblioteca).
Il modello CBBE, che descrive il valore intangibile del brand percepito dai consumatori (nel nostro caso dagli utenti) rappresenta un punto di incontro fra quattro componenti:
- l’identità del brand
- il significato del brand (cosa sei?)
- le reazioni nei confronti del brand (quali sensazioni susciti in me?)
- la relazione con il brand.
A queste quattro componenti sono associate altrettante fasi che costituiscono una sequenza o, più correttamente, una gerarchia che si sintetizza nello schema detto, appunto, piramide di Keller.
Brand, prominenza e biblioteche
Il livello da cui si parte è la prominenza, in cui si fa riferimento alla consapevolezza (awareness) che i pubblici hanno del brand. In particolare, la capacità di riconoscerlo e richiamarlo alla mente creando automaticamente l’associazione bisogno-soluzione. La prominenza dovrebbe essere un obiettivo essenziale per la biblioteca. L’essere associata alla soluzione di un bisogno è tutt’altro che garantita. Anzi, le radici della prominenza si intrecciano con l’awareness: le persone ti conoscono? Sanno che esisti? Conoscono i tuoi servizi, le opportunità che offri? C’è la consapevolezza che puoi essere una risposta alle loro necessità? Necessità che vanno oltre il prestito e comprendono incontri, formazione, spazi di coworking, attività creative (fablab, makerslab, …).
Se abbiamo fatto sapere che ci siamo, cosa siamo e possiamo fare, l’obiettivo superiore è quello del secondo gradino della piramide.
Performance e immagine
Questo livello si articola in due componenti:
- performance del brand che è la modalità con cui il servizio associato soddisfa i bisogni di natura funzionale degli utenti a cui si rivolge. Questo avviene in termini di affidabilità, efficacia, efficienza ed empatia del servizio.
- immagine del brand che si riferisce alle modalità con cui il brand cerca di rispondere ai bisogni psicologici o sociali degli utenti. L’immagine si forma attraverso il vissuto, il passaparola e fa parte, prevalentemente, della dimensione intangibile, percepita.
Quindi, in altre parole, si va oltre all’immagine visiva e ci si concentra su cosa trasmette il brand, quali sensazioni genera. E qui mi tornano in mente le parole di Giulia Bonazzi e Francesca Incerti sullo stupore di alcuni utenti del Multiplo di Cavriago (RE): “Questa cosa in biblioteca non si è mai vista, negli altri posti non si fa”. “Ma questo è il Multiplo, al Multiplo si può!”.
Cosa penso di te?
Nel terzo gradino c’è l’analisi della risposta dei pubblici. I pareri sono suddivisi in giudizi e sensazioni. I primi coinvolgono la sfera della qualità, credibilità, considerazione e superiorità (nel confronto con altri brand dello stesso ambito). Mentre le sensazioni coinvolgono la sfera emotiva e esperienziale. Nel caso della biblioteca sono fra gli elementi più interessanti sui quali riflettere.
Sono sei le principali categorie in cui possiamo sintetizzarle e provare ad associarle all’ambito bibliotecario:
- calore, inteso come accoglienza, affettuosità, …
- divertimento: allegria, giocosità, spensieratezza, gioia (pensiamo alle tante iniziative per i bambini ma anche per i più “grandi”)
- energia: fa sentire gli utenti protagonisti di un’esperienza speciale
- sicurezza: il brand genera una sensazione di fiducia, tranquillizzante (so che posso contate su di te)
- approvazione sociale: le sensazioni positive che superano i confini rappresentati dagli utenti abituali e abbracciano un orizzonte più ampio all’interno del quale diventano punto di riferimento (la città, il comune, l’ateneo, …)
- autostima: il brand suscita una migliore opinione di sé, un senso di realizzazione.
Risonanza
La risonanza è l’obiettivo ultimo. Fa riferimento all’intensità del legame psicologico fra brand e utente, ma anche all’atteggiamento attivo e partecipativo. Possiamo scomporre la risonanza del brand in quattro componenti: fedeltà del comportamento, senso di attaccamento al brand, senso di comunità e impegno attivo. E questo si genera in quelle biblioteche in cui è forte l’accento sul suo essere hub di comunità. Risuonano nella mente le parole di Lankes che sottolinea come “le biblioteche non sono un luogo di commemorazione della cultura, bensì un luogo dove le comunità possono inventare la propria cultura e la propria identità. Non sono solamente luoghi dove si va per diventare più intelligenti, ma anche dove si va per sentirsi parte di una comunità.”
#nonsolo Keller
La piramide di Keller, come altri modelli che definiscono le diverse componenti del brand management non sono esenti da limiti e critiche. Il CBBE ha certamente il merito di scomporre il brand in una serie di elementi e collegarli fra loro in un processo organico. L’utente, inoltre, ha un ruolo chiaro e concorre alla definizione del valore della marca. È anche vero che a Keller è stato rimproverato un approccio che, secondo Semprini, è “troppo influenzato da un’epistemologia di tipo comportamentale” (**) poiché ricalca lo schema tradizionale “stimolo-risposta”. Ma è anche vero che anche per la biblioteca la piramide di Keller può essere una traccia da seguire per migliorare gli interventi sul branding.
(*) Kevin Lane Keller, Conceptualizing, measuring and managing customer-based brand equity, “Journal of Marketing”, 57 (1993), 1, p. 1-22, https://www.jstor.org/stable/1252054
(**) Andrea Semprini, Marche e mondi possibili, Milano, Franco Angeli, 2012
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