Quando a scuola ci chiedevano che lavoro facessero i nostri genitori, dicevo che il babbo faceva il tecnico di radiologia medica. I miei compagni di scuola mi chiedevano: ma di preciso cosa fa? E allora io rispondevo: le radiografie.
Ma a me non bastava e insistevo: babbo ma cosa devo dire? Come fai a fare le radiografie?
Bè Anna, ricordati: ci sono i milliAmpere, i kiloVolt e il tempo. Regolandoli, i raggi X attraversano le persone e fotografano quello che c’è dentro. I milliAmpere sono come la luce, i kiloVolt il contrasto: è come fare una fotografia. Solo che quello che si impressiona è una pellicola radiografica. L’abilità sta nel dosare bene entrambe senza esagerare, lavorando sul tempo. Un bravo tecnico deve essere anche un bravo fotografo: l’immagine deve essere ben fatta, chiara. Il medico deve poter studiare in maniera accurata la situazione del paziente.
E io: si, si, babbo, ho capito … ma in verità non capivo mica tanto. Ho capito bene solo diversi anni dopo quando mi proposero come tesi di laurea di studiare i danni da radiazioni nei pazienti sottoposti alle indagini radiografiche al torace. Pensai a una sorta di disegno del destino: finalmente avrei capito, e anche bene.
Perché racconto questo ricordo proprio oggi ? Perché oggi è il 19 marzo 2022, festa del papà e quest’anno sono 20 anni che sono rimasta senza di lui. I “suoi” raggi X lo hanno ucciso come è accaduto a tanti medici, ricercatori, tecnici che hanno lavorato per anni senza o con protezioni insufficienti. Erano tempi in cui la radioprotezione era agli albori. Poi le cose sono, fortunatamente, cambiate e sono state adottati strutture, apparati, leggi e procedure tese alla protezione da effetti nocivi sui:
- lavoratori, per quanto riguarda le esposizioni derivanti dall’attività professionale
- pazienti, a seguito delle esposizioni per esami o terapie.
Il mio babbo amava il suo lavoro e aveva un buon rapporto con i raggi X. Li temeva, ma non a sufficienza. Forse perché lui, in fondo in fondo, era rimasto un fotografo.
A 17 anni aveva finito di studiare: elementari, avviamento (come si chiamavano allora le scuole medie) e un ulteriore biennio tecnico. Appassionato di fotografia, inizia a lavorare come “apprendista” in uno dei più famosi studi fotografici di Ravenna. Eccolo qui, a sinistra, vicino al titolare dello studio. Siamo nel 1941.
Attraversata la guerra, per alcuni anni continua a fare il fotografo di professione. Poi, all’inizio degli anni ’50 ecco l’incontro che gli cambia la vita. Il primario di radiologia dell’Ospedale di Ravenna, il prof. Pietro Sighinolfi, un vero luminare nel suo campo, lo chiama.
In quegli anni i tecnici di radiologia medica sono rarissimi. Il professore cerca qualcuno che abbia conoscenze soprattutto di fotografia ma abbia anche nozioni tecniche per una nuova struttura che deve nascere a Ravenna. Lui è proprio la persona giusta. Così, lascia la fotografia professionale e lavora per anni al Dispensario Provinciale Antitubercolare di Ravenna. I Dispensari erano una rete afferente al Consorzio Provinciale Antitubercolare (CPA), un ente pubblico italiano che gestiva la lotta contro la tubercolosi (TBC). Dopo la chiusura “nazionale” del CPA, continua la professione al Centro di Prevenzione Oncologica dell’Ospedale di Ravenna fino alla pensione. Tecnico e fotografo, un binomio inscindibile. Fino alla fine.
E oggi? Oggi gli apparecchi radiografici sono cambiati, evoluti. Ci sono ancora i raggiX, e, ovviamente, milliAmpere, kVolt e il tempo. Le pellicole radiografiche, le lastre come le chiamavano in ambito medico, sostituite delle immagini digitali. Le nuove apparecchiature sono diventate molto più efficienti e la dose di radiazioni è molto diminuita, ma non bisogna sottovalutarne gli effetti.
Foto di copertina: 1973, Dispensario Antitubercolare di Ravenna – il mio babbo dietro i pannelli schermanti e vicino al quadro comandi dell’apparecchio radiologico.